Pubblicato il Marzo 15, 2024

La vera sfida non è il conflitto tra Gen Z e Senior, ma il divario tra i valori che l’azienda dichiara e ciò che fa vivere ai dipendenti ogni giorno.

  • Superare i cliché tossici (“siamo una famiglia”) e i benefit standardizzati che non soddisfano nessuno.
  • Progettare con intenzione i momenti chiave dell’esperienza lavorativa, come l’onboarding da remoto e l’uso degli spazi fisici.

Raccomandazione: Mappare le competenze interne prima di investire in formazione e sfruttare i Fondi Interprofessionali per finanziare una crescita strategica e su misura.

Come direttore HR, ogni giorno vi confrontate con una realtà frustrante: il mercato del lavoro è un campo di battaglia. I talenti, soprattutto quelli della Generazione Z, sono merce rara e volatile, mentre le figure senior, custodi di un sapere prezioso, si sentono sempre più disconnesse. Avete provato a lucidare la pagina “Lavora con noi” con frasi accattivanti, forse avete persino pensato di installare un tavolo da ping-pong. Eppure, le “Grandi Dimissioni” non si arrestano e i candidati migliori sembrano svanire dopo il primo colloquio.

La verità è che la maggior parte delle strategie di employer branding fallisce perché si concentra sui sintomi e non sulla causa. Si parla di flessibilità, benefit e valori, ma spesso queste restano parole vuote. E se la chiave non fosse aggiungere un nuovo benefit, ma garantire una ferrea coerenza tra ciò che promettete e ciò che offrite? Se la vera attrazione risiedesse in una cultura aziendale non solo “dichiarata”, ma “vissuta” e misurabile in ogni processo interno?

Questo non è l’ennesimo articolo sui capricci della Gen Z. È una guida strategica per voi, direttori HR, che volete smettere di rincorrere i talenti e iniziare a costruire un sistema che li attragga e li trattenga naturalmente, valorizzando ogni generazione. Il segreto non è un benefit, ma la coerenza strutturale. Analizzeremo insieme come trasformare i punti critici dell’esperienza lavorativa in potenti leve di attrazione e retention, creando un ambiente dove sia la Gen Z che i professionisti senior possano finalmente prosperare insieme.

Per navigare in questa trasformazione, abbiamo strutturato il percorso in otto tappe fondamentali. Ogni sezione affronterà una sfida specifica, offrendo analisi e soluzioni concrete per costruire una cultura aziendale a prova di futuro.

Perché scrivere “siamo una famiglia” sul sito allontana i candidati migliori?

Quella frase, “qui siamo una grande famiglia”, è forse il cliché più diffuso e, paradossalmente, più dannoso dell’employer branding moderno. Per un candidato della Generazione Z, ma sempre più anche per i Millennial, non evoca calore e appartenenza, ma suona come un campanello d’allarme. Suggerisce confini labili tra vita privata e lavoro, aspettative di dedizione incondizionata e la possibilità di sacrifici personali non retribuiti. In un’epoca in cui il benessere psicologico e l’equilibrio sono diventati prioritari, questa promessa di “famiglia” è una bandiera rossa che segnala una potenziale cultura tossica.

L’incoerenza tra la promessa e la realtà è un fattore di rischio enorme. Le aspettative mal riposte sono una delle cause principali del turnover precoce; una ricerca di Michael Page ha rivelato che oltre il 71% dei dipendenti italiani considera di lasciare l’azienda dopo un solo giorno di lavoro se l’esperienza non è all’altezza delle attese. La Gen Z, in particolare, ha un’idea diversa del lavoro. Non rifiuta il sacrificio, ma lo ridefinisce: non più ore infinite passate in ufficio, ma un impegno focalizzato sulla qualità del risultato e sull’impatto del proprio contributo. Abbandonare la retorica familiare per una comunicazione onesta e basata su un rapporto professionale chiaro è il primo passo per costruire la fiducia.

L’alternativa è definire un patto di chiarezza: l’azienda offre opportunità di crescita, un ambiente di lavoro rispettoso e una compensazione equa; in cambio, si aspetta professionalità, impegno e raggiungimento degli obiettivi. Questo tipo di trasparenza è molto più attraente di una finta promessa di affetto incondizionato. Significa trattare i dipendenti come adulti responsabili, non come figli da accudire.

Come far sentire parte del team un neoassunto che lavora da remoto fin dal primo giorno?

L’onboarding da remoto è il primo, vero banco di prova della vostra cultura aziendale. Un processo improvvisato o freddo comunica al nuovo arrivato una sola cosa: “sei solo”. Al contrario, un’accoglienza strutturata e calorosa dimostra che l’azienda investe nelle sue persone fin dal primo istante. Non si tratta solo di spedire un laptop, ma di orchestrare un’esperienza che trasmetta valori, crei connessioni umane e fornisca al neoassunto tutti gli strumenti per essere operativo e sereno.

La chiave è la progettazione intenzionale. Ogni interazione deve essere pensata per abbattere la barriera dello schermo. Un kit di benvenuto fisico, ad esempio, crea un primo legame tangibile con l’azienda. L’affiancamento di un mentore, non solo tecnico ma anche “culturale”, aiuta a decifrare le dinamiche non scritte e a sentirsi parte di una storia condivisa. Le pause caffè virtuali, se ben strutturate, possono sostituire efficacemente le chiacchiere informali alla macchinetta del caffè.

Setup di postazione home office con kit di benvenuto aziendale e collegamento video con mentore senior

Questo approccio strutturato non è un costo, ma un investimento con un ritorno altissimo. Dimostra che l’azienda si prende cura del benessere dei suoi dipendenti, promuove una cultura dell’inclusione e pone le basi per un rapporto di fiducia a lungo termine. Ecco un processo in cinque fasi per non lasciare nulla al caso:

  1. Fase di pre-onboarding: Inviare un kit di benvenuto fisico e digitale prima del primo giorno, includendo una guida pratica alla burocrazia italiana e le credenziali di accesso.
  2. Primo giorno: Organizzare un’accoglienza virtuale calorosa con una presentazione del team e un tour virtuale degli “spazi” digitali aziendali (server, chat, etc.).
  3. Prima settimana: Programmare incontri 1-to-1 con i membri chiave del team e “pause caffè virtuali” strutturate per favorire la socializzazione informale.
  4. Primo mese: Affiancare un “Mentore Culturale”, idealmente una figura senior, per trasmettere la storia aziendale e i valori non scritti.
  5. Follow-up continuo: Pianificare check-in settimanali durante il primo mese, per poi diradarli progressivamente, per assicurarsi che l’integrazione proceda senza intoppi.

Palestra gratis o soldi in busta: cosa vuole davvero il lavoratore italiano oggi?

La domanda che tormenta ogni reparto HR è se sia meglio offrire benefit tangibili o aumentare direttamente lo stipendio. La risposta corretta è: nessuno dei due, o meglio, la scelta giusta dipende da chi avete di fronte. L’era del “welfare uguale per tutti” è finita. Oggi, per essere competitivi, è necessario adottare un approccio “sartoriale”, offrendo un paniere di opzioni flessibili che permetta a ciascun dipendente di scegliere ciò che ha più valore per sé in quella specifica fase della sua vita e carriera.

Il welfare aziendale è ormai una realtà consolidata nel nostro Paese, con dati del Rapporto Welfare Index PMI 2024 che mostrano come il 75% delle PMI italiane ha attivato iniziative in questo campo. Tuttavia, l’efficacia non sta nella quantità, ma nella pertinenza. Un giovane della Gen Z potrebbe preferire buoni pasto e fringe benefit da spendere nel tempo libero, un Millennial con figli piccoli darà priorità al supporto per l’asilo nido, mentre un Baby Boomer potrebbe essere più interessato all’assistenza sanitaria integrativa o al caregiving per i genitori anziani. Offrire un’unica soluzione significa scontentare gran parte della forza lavoro.

La soluzione risiede nei piani di welfare flessibile, dove l’azienda mette a disposizione un budget che il dipendente può allocare liberamente tra diverse categorie di beni e servizi. Questo approccio non solo massimizza il valore percepito del benefit, ma comunica anche un profondo rispetto per le esigenze individuali, rafforzando il senso di appartenenza. Come dimostra la seguente tabella basata sui dati dell’Osservatorio Welfare di Edenred, le priorità cambiano radicalmente con l’età.

Preferenze di welfare per generazione in Italia
Generazione Benefit prioritario Valore medio welfare Focus principale
Gen Z Fringe benefit (31,8%) 750€ Buoni spesa, tempo libero
Millennials Area ricreativa (29,5%) 850€ Asilo nido, formazione
Baby Boomer Buono pasto (60%) 910€ Assistenza sanitaria, caregiving anziani

Il rischio di nascondere le difficoltà aziendali che porta alla fuga dei cervelli

Di fronte a una trimestrale deludente o a una riorganizzazione interna, l’istinto di molti manager è quello di minimizzare, nascondere o edulcorare la realtà per “non creare panico”. Questa strategia, apparentemente protettiva, è in realtà una delle più efficaci nel distruggere la fiducia e incentivare la fuga dei talenti. Le generazioni più giovani, in particolare, sono cresciute in un’era di informazione costante e hanno un radar finissimo per l’inautenticità. Preferiscono di gran lunga una verità scomoda a una bugia rassicurante.

Nascondere i problemi crea un vuoto che viene inevitabilmente riempito da pettegolezzi, ansia e sfiducia. Questo clima incerto spinge le persone a cercare altrove, un fenomeno testimoniato da un aumento del 20% del tasso di job hopping registrato in Italia negli ultimi anni. La trasparenza, al contrario, trasforma i dipendenti da spettatori passivi a protagonisti attivi. Comunicare apertamente una difficoltà, spiegando il contesto e il piano d’azione per superarla, è un atto di grande leadership. Invita le persone a contribuire alla soluzione, rafforzando il senso di responsabilità e di appartenenza.

La Generazione Z, in particolare, non vuole solo un lavoro, ma vuole avere un impatto. Si sentono agenti del cambiamento, come evidenziato da una ricerca di Zety per Il Sole 24 Ore:

L’85% della Generazione Z crede di essere in grado di trasformare il mercato del lavoro, in meglio.

– Ricerca Zety, Analisi su 1100 lavoratori Gen Z italiani

Ignorare questo desiderio di partecipazione e trattare i dipendenti come soggetti incapaci di gestire la verità è il modo più rapido per perdere i talenti più brillanti e motivati. La trasparenza radicale (ma gestita) non significa condividere ogni singolo dettaglio, ma essere onesti sulle sfide e fiduciosi nella capacità del team di affrontarle insieme.

Perché venire in ufficio per fare videocall è la morte della motivazione del team?

Immaginate la scena: un open space moderno, costoso e semi-deserto. I pochi dipendenti presenti sono chiusi in piccole sale riunioni o con le cuffie alle orecchie, intenti a partecipare a videochiamate. Questa immagine, sempre più comune, rappresenta il più grande paradosso del lavoro ibrido e la negazione del vero potenziale dell’ufficio. Chiedere alle persone di affrontare il traffico e i costi del pendolarismo per poi replicare esattamente l’esperienza che avrebbero potuto avere da casa è il modo più rapido per distruggere la motivazione e far percepire l’ufficio come un luogo inutile.

Per le nuove generazioni, la flessibilità non è un benefit, ma una pre-condizione. Secondo Workitect, il 63% della Generazione Z considera lo smart working una condizione non trattabile per accettare un lavoro. Questo non significa che l’ufficio sia morto, ma che il suo scopo deve essere radicalmente ripensato. Se il lavoro da remoto è ottimale per le attività di concentrazione individuale (deep work), l’ufficio deve diventare il luogo privilegiato per tutto ciò che richiede interazione, creatività e costruzione di legami sociali.

L’ufficio del futuro è una “piazza aziendale”. È il luogo dove ci si incontra per sessioni di brainstorming, workshop creativi, formazione in presenza e momenti di socialità che rafforzano la cultura e il senso di appartenenza. Secondo un report di Valore D e Fondazione Adapt, il 95% dei giovani lavoratori italiani ritiene fondamentale la possibilità di lavorare da remoto almeno parzialmente. La progettazione intenzionale degli spazi e dei tempi diventa quindi cruciale: i giorni in ufficio devono avere uno scopo chiaro e collettivo. Devono essere giorni dedicati a riunioni strategiche, progetti di gruppo e celebrazioni, non a task individuali che possono essere svolti più efficacemente da casa.

Quando lanciare una survey anonima per scoprire cosa pensano davvero i dipendenti?

Le survey anonime sul clima aziendale sono uno strumento potentissimo, ma solo se usate con strategia e coraggio. Non sono un semplice esercizio di misurazione da fare una volta all’anno, ma un dialogo continuo che l’azienda apre con le sue persone. Lanciarle nel momento giusto è fondamentale per ottenere dati onesti e significativi, ma l’aspetto più critico è ciò che accade dopo: la comunicazione dei risultati e, soprattutto, delle azioni che ne conseguono.

Una survey senza seguito è peggio di nessuna survey. Crea aspettative che, se deluse, generano cinismo e disillusione, confermando l’idea che “tanto non cambia mai nulla”. La Generazione Z, in particolare, ha una bassa tolleranza per l’incoerenza. Come emerge da uno studio, solo il 19% di loro lavorerebbe per un’azienda di cui non condivide i valori. Se un’azienda chiede un’opinione e poi la ignora, sta di fatto dimostrando che i valori di ascolto e partecipazione sono solo di facciata. I momenti migliori per lanciare una survey sono legati a cicli specifici della vita aziendale:

  • Dopo la chiusura del bilancio annuale, per valutare il clima post-risultati.
  • Prima della definizione del piano ferie estivo (tipicamente tra aprile e maggio).
  • In seguito a cambiamenti organizzativi importanti, come fusioni o riorganizzazioni.
  • Dopo il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di categoria.
  • A 3-6 mesi dall’implementazione di nuove politiche di welfare o di lavoro.

L’importanza della “Chiusura del Cerchio”

Dopo ogni survey, il passo più importante è la “chiusura del cerchio”. Questo significa comunicare a tutta l’azienda una sintesi trasparente dei risultati (anche quelli negativi) e, soprattutto, annunciare pubblicamente 1 o 2 azioni concrete che verranno intraprese in risposta al feedback. Per ogni azione, è cruciale definire un responsabile e una timeline chiara. Questo semplice atto dimostra che l’ascolto è reale e che il feedback delle persone ha un impatto tangibile, costruendo un circolo virtuoso di fiducia e partecipazione.

Come mappare le competenze mancanti nel vostro team prima di comprare corsi a caso?

Investire in formazione è una delle leve più potenti per la retention dei talenti. Per il 63% dei giovani italiani, la formazione continua è un fattore fondamentale nella scelta e nella permanenza in un’azienda. Tuttavia, l’approccio comune di “comprare corsi a catalogo” è spesso uno spreco di risorse. Offrire formazione generica senza una diagnosi precisa è come prescrivere un farmaco senza aver fatto un’analisi: inefficace e costoso. La vera sfida è trasformare la formazione da un costo a un investimento strategico, partendo da una mappatura precisa dei gap di competenze.

Un’analisi efficace non si basa su sensazioni, ma su un processo strutturato che incrocia gli obiettivi di business con le capacità attuali e future del team. Questo processo permette di identificare con precisione dove investire, garantendo che ogni euro speso in formazione contribuisca direttamente alla crescita dell’azienda e delle persone. Ad esempio, è inutile formare tutti sull’Intelligenza Artificiale se il vero bisogno è migliorare le soft skill di comunicazione tra i team. La mappatura, inoltre, apre la porta a soluzioni innovative come il reverse mentoring, dove i più giovani formano i senior sulle competenze digitali, valorizzando il sapere di entrambi.

Costruire questo piano non è un’attività da svolgere in solitaria. Richiede il coinvolgimento dei manager e dei dipendenti stessi per creare un quadro realistico e condiviso delle necessità. Solo dopo questa analisi si può passare alla progettazione di percorsi formativi mirati, che siano realmente utili e apprezzati.

Checklist per la mappatura strategica delle competenze

  1. Analisi dei profili: Partire dall’analisi dei profili professionali previsti dal CCNL di riferimento per avere una base oggettiva delle competenze attese.
  2. Mappatura Attuale vs. Futura: Confrontare le competenze attuali del team con quelle che saranno necessarie in futuro per raggiungere gli obiettivi di business (es. AI, sostenibilità, nuove normative).
  3. Autocertificazione Incrociata: Implementare un sistema di autocertificazione delle competenze da parte dei dipendenti, da incrociare con la valutazione dei loro manager per un quadro a 360°.
  4. Identificazione per Reverse Mentoring: Individuare 3 competenze chiave (tipicamente digitali o legate a nuovi trend) dove i talenti della Gen Z possono formare i colleghi senior.
  5. Creazione di Coppie Intergenerazionali: Formare coppie di lavoro Gen Z + Senior su progetti specifici per favorire lo scambio pratico di competenze e la creazione di legami.

Da ricordare

  • L’autenticità vince sui cliché: una comunicazione trasparente e un patto professionale chiaro sono più attraenti di false promesse familiari.
  • Il welfare “sartoriale” è la chiave: offrire opzioni flessibili che rispondano alle diverse esigenze di Gen Z e Senior massimizza il valore percepito.
  • La formazione strategica, finanziata con i Fondi Interprofessionali, non è un costo ma un investimento a ritorno garantito sulla crescita e la retention.

Come accedere ai Fondi Interprofessionali per formare i dipendenti a costo zero?

Dopo aver mappato le competenze necessarie, la domanda sorge spontanea: come finanziare questa formazione strategica? La risposta, spesso ignorata o sottovalutata, si trova in uno strumento potentissimo a disposizione di tutte le aziende italiane: i Fondi Paritetici Interprofessionali. Questi fondi permettono di finanziare la formazione dei dipendenti utilizzando risorse che l’azienda già versa, trasformando di fatto un obbligo contributivo in un’opportunità di crescita a costo zero.

Ogni mese, la vostra azienda versa all’INPS un contributo obbligatorio dello 0,30% della massa salariale per ogni dipendente, destinato alla “disoccupazione involontaria”. Aderendo a un Fondo Interprofessionale, potete scegliere di destinare questa quota al finanziamento di piani formativi su misura per i vostri lavoratori. Con oltre 760.323 imprese aderenti in Italia, questo sistema rappresenta la principale fonte di finanziamento per la formazione continua nel nostro Paese. L’adesione è semplice, gratuita e può essere revocata in qualsiasi momento.

Utilizzare questi fondi significa poter progettare percorsi di upskilling e reskilling perfettamente allineati alle esigenze emerse dalla mappatura delle competenze: corsi di digital upskilling per i senior, percorsi sulle soft skill per la Gen Z, formazione linguistica o tecnica. È la quadratura del cerchio: si risponde al bisogno di crescita dei dipendenti, si colma il gap di competenze aziendale e si fa tutto ciò senza intaccare il budget. Ecco i passi pratici per iniziare:

  1. Verifica del versamento: Controllare nella busta paga o con il vostro consulente del lavoro che stiate già versando lo 0,30% dei contributi INPS mensili.
  2. Scelta del fondo: Scegliere il fondo più adatto al vostro settore e alla dimensione aziendale tra i 19 operativi in Italia (es. Fondimpresa per l’industria, For.Te. per il terziario, Fon.Coop per le cooperative).
  3. Adesione tramite Uniemens: Comunicare la propria scelta all’INPS attraverso la compilazione del modello Uniemens (ex DM10). L’adesione è gratuita e non comporta costi aggiuntivi.
  4. Utilizzo del “Conto di Sistema” (per PMI): Se siete una piccola impresa, potete accedere a fondi collettivi messi a disposizione dal Fondo per unirvi ad altre aziende e finanziare corsi interaziendali.
  5. Presentazione del Piano Formativo: Presentare un Piano Formativo Intergenerazionale che includa, ad esempio, Digital Upskilling per i senior e sviluppo delle soft skill per la Gen Z per massimizzare l’impatto.

La costruzione di una cultura aziendale capace di attrarre e trattenere talenti di diverse generazioni non è un progetto a breve termine, ma un cambiamento sistemico. Valutate oggi stesso quali competenze strategiche mancano al vostro team e trasformate la formazione da costo a leva di crescita competitiva, finanziandola con gli strumenti che avete già a disposizione.

Scritto da Marco Cattaneo, Consulente di Direzione e Specialista in Ristrutturazione Aziendale con 15 anni di esperienza nel supporto alle PMI italiane. Esperto in gestione del cambiamento, ottimizzazione dei processi HR e pianificazione strategica per l'accesso ai fondi PNRR.